Rosa Bellinzoni Bianchetti (1932-2011) è stata tra le prime Serve della Chiesa italiane; ha conosciuto l’Istituto insieme a Luigina Meini, attraverso don Emanuele Cavallo, insieme si sono consacrate, a Follonica, con il Vescovo di allora, Angelo Comastri.
Rosa era donna passionale, umorale e imprevedibile. Aveva la solerzia della donna dei ‘Proverbi: cuciva abiti e ricamava, curava il suo giardino e cucinava ottimo pesce; capace di scherzare, esilarante se era “in buona”; intrattabile se si inalberava.
In realtà Rosa è stata una donna che ha sofferto tutta la vita, fisicamente e moralmente, e ha subito infiniti interventi; questo però non le ha impedito di lasciare la casa per vari anni ed andare a servire in canonica; prima ad Alcamo, con don Franco Sacchini e Antonio Lusvardi, allora diacono; poi con Don Mario Pini, a Reggio Emilia. Il suo intento era di accogliere con amore chiunque bussasse alla canonica, casa di tutti. Ma c’era pure in lei – io credo – il desiderio di vivere la ricchezza della reciprocità, nella Famiglia. La spiritualità di don Franco, in particolare, l’ aveva molto sostenuta.
Tuttavia, più volte non si è sentita capita, e allora le sue reazioni erano violente. Ha sofferto e ci ha fatto soffrire; non mi ha mai accettata come Responsabile, non tollerava l’idea – solo nella sua mente – di ‘essere comandata da una più giovane’.
Le sue aspettative sull’lstituto si scontravano con la realtà dei nostri limiti, fino ad arrivare a chiedere un anno di dispensa dalla vita dei Servi; richiesta che poi ritirò.
In realtà, tra gli alti e bassi del suo temperamento, l’unica stabilità era data dalla consacrazione. Era quella la sua intima gioia. E negli ultimi mesi era diventata il centro dei suoi pensieri.
Ho ritrovato gli appunti del nostro incontro nel luglio 2011 e ho steso due righe, di ringraziamento e di lode.
Il 20 luglio 2011 resterà nella memoria mia, e di altri fratelli e sorelle della Famiglia come ricordo di un evento di grazia, memoria della misericordia di Dio verso di noi.
Rosa dall’autunno precedente aveva preso la decisione di andarsene in una casa di riposo a Viterbo, vicino alle sue sorelle. Aveva deciso tutto da sola, come sempre.. Non fu molto eloquente quando ci sentimmo al telefono. Amareggiata, sofferente, sola.
Quando la cercai verso Pasqua , mi rispose Virgilio, suo figlio: era stata operata d’urgenza per un tumore al pancreas – e non era ormai più possibile lasciarla alla casa di riposo; sicché lui l’aveva presa a casa sua, con una badante a ore. Troppo debole per parlare, Virgilio non me la passò neppure. Subito con Giovanna guardammo il primo giorno disponibile per andare a Follonica: era il sabato, vigilia delle Palme.
Rosa stava in una stanzetta piccola e luminosa; stava senza forze sul letto; ci abbracciava piangendo, ringraziava e piangeva; e raccontava. Le piaceva raccontare. E ci disse anzitutto due cose: aveva deciso di andarsene in una casa di riposo per non pesare sui familiari, perché il braccio continuava a gonfiarsi. E poi aveva sempre pensato che anche là poteva ‘servire’, annunciando il Signore: quello poteva essere il suo nuovo ambito di missione. Ormai non sarebbe più andata da nessuna parte, perché non c’erano altre case disponibili.
“Non è detto, Rosa ” mi sentii di rispondere.
Fu così che di lì a poco la sua dottoressa la indirizzò ad una struttura appena aperta .E quando in estate arrivarono i fratelli dal Madagascar, avevamo già programmato di andare a trovarla. Ma la struttura era assolutamente ‘laica’, senza messa né un servizio stabile di s. comunione. Così decidemmo di andare a trovarla e di celebrare la Messa nella sua stanza. Eravamo Giovanna ed io, Blandine, Raymonde e Copertino. Rosa era assolutamente contenta; per avere la sua ‘famiglia’ aveva spostato altre visite. Luigina non stava bene e all’ultimo momento non venne. Ma arrivò Virgilio.
Nella quiete della stanza, bella e assolata, Rosa ci raccontò di come provava a vivere il servizio anche là dentro; di come era riuscita a non ricambiare ‘male per male’ , quando un’infermiera l’aveva violentemente maneggiata, facendole dolere tutte le ossa. Rosa sapeva che aveva dietro una storia di lutti e di dolore; le aveva parlato del Signore, le aveva regalato un crocifisso, e chiesto al parroco di benedirlo.
Ci raccontava contenta, consapevole, credo, di un nuovo spirito di pace e di benevolenza che le riempiva il cuore, e le faceva ormai pensare bene e dire bene di tutti .
Noi avevamo portato anche il CD di don Stefano, con i canti di Giuni Russo (finalmente qualcuno di noi che usava altri linguaggi -canti e musiche- per commentare la bellezza delle Costituzioni!)
Io avevo scelto di farle ascoltare il brano che riprendeva il Cantico dei Cantici: ”Come sei bella… come sei bella…” Poi la Messa. Copertino aveva portato anche l’olio degli infermi; Rosa lo aveva accolto con gratitudine. C’era uno sguardo, una luce nuova nei suoi occhi. “Ciao, Rosa. Torno con Luciano”. Ma non c’è stato tempo. Raymonde, Blandine, Copertino ed io ci fermammo a Scandicci, per visitare Firenze l’indomani. La telefonata di Virgilio ci raggiunse sulla metro: ”Mamma se ne è andata stanotte nel sonno”.
Era chiaro: Rosa ci aveva aspettato per l’ultima Eucarestia, e la musica del Cantico era stata il preludio all’abbraccio finale dello Sposo.
Maria Valeria Leuratti nel 4° anniversario della morte di Rosa Bellinzoni