Don Orazio, Servo della Chiesa e della Gioia
Il ritorno di don Orazio al Padre, avvenuto venerdì 21 ottobre in una splendida giornata di
sole, è stato preceduto e seguito da altre umide e grige, in sintonia con la tristezza dei
familiari e parenti, dei fratelli e sorelle dell’Istituto, di tantissime persone amiche e di tutte le comunità dove il nostro ha operato come sacerdote, “servo della Chiesa”: alla Magliana
(Roma), a Paredes (Spagna), a Novellara, a Castellarano, a Prignano-Saltino-Castelvecchio, a Fabbrico, infine a Montecchio.
Il Santuario della Madonna dell’Olmo era gremito di sacerdoti e di popolo commosso,
assorto, riconoscente. Essenziale e profondo, all’inizio della messa funebre, il ricordo del
vescovo Massimo, colpito dagli occhi grandi, luminosi e buoni del sacerdote, espressione del suo intimo bisogno d’amore e del suo grande desiderio di amare. L’assemblea ha colto in queste note come il preludio di una sinfonia eucaristica di lode e ringraziamento a Dio per il dono del sacerdozio e di riconoscenza a don Orazio per l’intensità con cui lo ha
vissuto…
Durante la messa, l’esultanza della donna ricurva da 18 anni sotto il peso della
malattia, guarita da Gesù, raccontata nel Vangelo di Luca (13,10-17), ha fatto pensare alla
gioia contagiosa, umana e sacerdotale di don Orazio. Lui stesso ha scritto nelle sue recenti
memorie, e ha più volte raccontato ai fedeli, l’origine gioiosa della sua vocazione: «Dalla gioia grande della Riconciliazione dopo una confessione è germinata in me, ancora
bambino, la convinzione che Dio è gioia e che questa gioia era stata trasmessa tramite il
sacerdote. Allora perché non farsi sacerdote per trasmettere gioia?».
Che sia stato lo zio materno, don Oreste Gambini, quel tramite così incisivo e decisivo, verso cui don Orazio ha sempre nutrito grande venerazione? Permanente e profonda è stata anche la sua ammirazione per la mamma Maria, stroncata da leucemia dopo cinque anni di atroce sofferenza. Di lei, nello stesso opuscolo, viene ricordato con commozione il bacio della buona notte, il sorriso costante nella malattia, e qualche velato rimprovero per la irrequietezza del figlio. Lascerà il marito con tre figli, tutti ancora ragazzi.
L’indole di Orazio, allora dodicenne, di natura ridente ed esuberante, sarà messa a dura prova. Tanto più che dopo sette anni il papà perirà in un tragico incidente stradale. Eppure, come nel Vangelo la gioia della donna guarita accende quella della folla, incurante delle critiche del capo della sinagoga che Gesù taccia di ipocrisia, anche la gioia di don Orazio sarà diffusiva, dinamica e profondamente caritatevole. Lo ha ricordato a tutti l’amico Fabio, dalla Magliana, nella lettera letta da Chiara, al termine della messa :”Io ero un ragazzo di 15-16 anni e fui colpito dal tuo fare. Eri sempre indaffarato con la mitica Ape…andavamo a raccogliere giornali, carta, ferro. Il ricavato serviva per le diverse famiglie povere del quartiere. Se capitava un frigorifero, una lavatrice, un televisore ancora funzionanti (li sollevavi e trasportavi da solo per le scale), andavamo assieme a consegnarli a chi ne aveva bisogno. Girando per le vie del quartiere, era difficile passare inosservati. Il più delle volte ti fermavi con la gente, ascoltavi, scherzavi, abbracciavi, davi la sveglia o la carica anche a persone che forse vivevano lontane da Dio»…
La gioia ricevuta da piccolo attraverso la confessione, don Orazio l’ha vissuta in varie
circostanze, proprio nella veste di prete, come in quel mattino di pioggia, sempre alla
Magliana, quando «un signore mai visto prima mi si presenta mentre alzo la serranda della chiesa-garage di via Pescaglia. Mi chiede di confessarsi; è inquieto, dice di avere viaggiato tutta la notte, di avere preso diversi autobus, e aggiunge: questa notte a causa di un dissesto finanziario, avevo deciso di suicidarmi, ma al pianto della mia bambina ho lasciato la pistola e sono uscito di casa. Come sono arrivato qui Dio solo lo sa». Alcuni mesi dopo, d’estate, un signore distinto gli si presenta con la stessa richiesta di confessarsi, e inizia; «un anno fa avevo deciso di suicidarmi e ho trovato un prete che mi ha detto così e così». Don Orazio commenta: «Io non ricordavo nulla. Quelle parole mi fecero venire le lacrime agli occhi: quel prete ero proprio io. Poi mi chiese la comunione. Lo pregai solo di darmi il tempo di asciugarmi il volto. Terminata la comunione, scomparve»…
(Memorie di don Orazio, pag. 5).
Rientrato nel reggiano, dopo un breve soggiorno spagnolo, il servizio generoso e intenso di
don Orazio si è diramato in vari settori, da quello della pastorale giovanile, scolastica e di
oratorio, specie a Novellara e Castellarano, a quella di parroco, lavoratore, impresario e
architetto, per rimettere in sesto le chiese di Prignano e Castelvecchio, a quello di volontario in Croce Rossa.
Non è mistero per nessuno quanto don Orazio amasse le moto, le macchine, la velocità, i
record.
Ed è stato proprio in Croce Rossa, a Prignano e a Fabbrico, settore inusuale per un prete,
che il nostro ha offerto, come volontario a pieno titolo, una prova unica del suo carisma
relazionale: simpatia, disponibilità totale, umanità sincera e rapidità, nelle battute come al
volante. Un giovane amico di Prignano ha rivelato una sua confidenza di anni fa : “ Davide,
oggi ho fatto Prignano-Saltino in 6′ e 47”. E Davide ha aggiunto davanti al feretro: «Don, la
tua testimonianza in Croce Rossa ha arricchito a dismisura lo spessore della tua figura di
volontario fiero e positivo: hai trasmesso tanto coraggio al prossimo infortunato e ai colleghi».
La carica umana, appassionata, accattivante di don Orazio non ha mai oscurato quanto altri amici di Novellara, di Fabbrico, di Roma, hanno sottolineato a chiare lettere: la sua pazienza e umiltà, la sua mitezza e capacità di ascolto, la sua fede e l’offerta di sé, silenziosa e tenace, come quella della madre e della Madonna (le due Marie, amava ripetere), anche nelle incomprensioni e nella sofferenza degli ultimi anni. Significativa al riguardo, molto fraterna e cristiana, la confessione finale scritta nel testamento:” Posso dire di avervi amati tutti e chiedo perdono se, anche involontariamente, non sempre ho atteso alle vostre aspettative.
Arrivederci in Paradiso!”
E qui tocchiamo il mistero della vita umana, come pure quello del sacerdozio: è il mistero del calvario e della pasqua, il mistero del servizio e dell’amore, il mistero della grazia di Dio, della sua misericordia e della salvezza. E’ ciò per cui don Orazio, concludendo le sue memorie e la sua stessa vita, ha scritto e ripetuto «Deo gratias!».
don Emanuele Benatti