Servo di Dio don Dino Torreggiani “L ‘APOSTOLO DELLE CAROVANE”

 di  Saviola don Piergiorgio                                             

     Don Dino Torreggiani è stato definito “un autentico martire della carità” e per martire non si intende solo il testimone, ma colui che ha pagato di persona, colui che non si è mai risparmiato: il sacerdote dal cuore grande, dalle ricche intuizioni profetiche, che ha offerto la sua vita come sacrificio a Dio nei gesti di una carità vissuta fino all’estremo.

In una sua lettera, scritta con tratti tremolanti e di difficile lettura poco prima della sua malattia mortale, colpisce una frase, un preciso messaggio:

 ” è bello morire stroncati dalla fatica, e l’ultimo a tacere sarà, forse, questo mio cuore sacerdotale”.

E’ il lottatore stanco che prima di morire ha ancora proposte e progetti fino ad allora rimasti irrealizzati.

Ma già da giovane seminarista scriveva:

Gesù, io non so in che cosa io possa esserti utile. Ma se tu hai bisogno di cemento per costruire la tua casa, polverizza le mie ossa, mescolale con le mie lacrime e il mio sangue e fanne ciò che vuoi…”

Tutto un programma di vita, quindi, il suo…

E’ morto, don Dino, il giorno della festa di San Vincenzo de’ Paoli, il santo dei poveri, il 27 settembre 1983: povero com’era nato, fuori da Reggio Emilia, dall’Italia, in terra straniera, in Spagna, dove era andato a visitare l’Istituto secolare dei “Servi della Chiesa” da lui fondato, la pupilla dei suoi occhi.

Il suo messaggio:

“un impegno di donazione e di povertà missionaria, per la salvezza di tutti, particolarmente dei più abbandonati e bisognosi, in comunione con il Vescovo della Chiesa locale”.

Don Dino è originale nelle sue scelte: vuol vivere i voti dei religiosi, pur rimanendo sacerdote diocesano; ha come superiore religioso il Vescovo: “Nihil sine episcopo”, ripeteva citando sant’ Ignazio di Antiochia, e come amica e sposa la Povertà: “viveva da povero con i poveri”.

Il giorno seguente della sua Ordinazione sacerdotale, infatti, il 25 marzo, aveva celebrato la sua “Prima Messa” all’altare della Madonna della Ghiara, in città e da qui:

“L’idea di mettere sotto il calice della mia prima Messa all’Altare della Cara Madonna della Ghiara (RE), un semplice biglietto per fissare le grazie speciali che domandavo alla Mamma: la grazia di praticare i voti religiosi restando sacerdote diocesano, la grazia di darmi alle categorie più abbandonate=”.

E ne fu subito esaudito:

Appena sacerdote è nominato vicerettore del Seminario diocesano ad Albinea.

“La lettura della vita del Beato Chevrier, che volle essere sacerdote religioso con il voto di povertà senza andare in convento. “Oh, ma questo è quello che penso, che voglio anch’io!” dissi ad Albinea quella volta che ne sentii parlare. Mi diedi da fare per acquistare questo libro “Le veritable disciple…” in francese ed è stato il libro della mia vita”.

La profezia di don Dino su questo punto è decisa e inequivocabile:

 “l’unica via di salvezza, per un mondo nel quale l’egoismo del possesso produce frutti di oppressione e di morte, sta nell’impegno del cristiano, e in particolare del prete, ad essere povero con i poveri, per i poveri”.

Dal cuore di don Dino uscirà una preghiera insolita, per chi non sa amare: pregava perché il Signore gli donasse la grazia di darsi alle

“categorie più abbandonate”…” “di contemplarlo nel volto dei poveri, fossero zingari o famiglie del Circo e del Luna Park, carcerati ed ex carcerati”.

Lascio la parola ancora a Don Dino:

Come gli zingari e i carcerati sono diventati il centro vitale del mio sacerdozio, della mia stessa vita”

Ho conosciuto gli zingari, fanciullo. La strada che da Masone porta al Castellazzo, vicino alla casa n. 40, abitata dal 1872 dalla mia famiglia, fa un’ansa nella quale sostavano gli zingari.

Ricordo la paura di mia madre che, partita la carovana, raccoglieva le galline “per contarle”.

Mio padre, tipo vivace, emotivo, cercava di fare amicizia con gli zingari e particolarmente con Raimondo, zingaro intelligente, buon parlatore, che pure sapeva disegnare le iniziali sulle tovaglie ricamate da mia sorella, che andava ad imparare il ricamo alle suore di Bagno.

Con vivo disappunto di mia madre, il papà chiamava Raimondo a pranzo con noi e noi rimanevamo incantati ad ascoltarlo.

Io… sono rimasto incantato dagli zingari per tutta la mia vita!

Anche la conoscenza dei carcerati risale alla mia prima infanzia. Il cognato di mio padre, Lugli, che copriva scaltramente i suoi molteplici furti sotto il mestiere di mediatore di cavalli, conosceva già il carcere. Il suo unico figlio, Tranquillo, dopo la scomparsa della zia, morta di crepacuore, fu accolto in casa nostra e per molto tempo non sapevamo che non fosse nostro fratello, mentre nessuno chiamava suo padre come nostro zio.

Un’aria di mistero, di taciuta disistima, forse anche di disprezzo circondava, lo compresi in seguito, nostro zio.

La colpa incancellabile, che lo escludeva per sempre dalla intimità della nostra casa era che “era un carcerato”.

Senza saperlo, sono cresciuto fra questa opposizione psicologica: interessamento per i tanti zingari e se non aborrimento, certo dimenticanza dei carcerati da non nominarli mai.

È forse questo che mi ha permesso in seguito, dall’esperienza diretta, che le due categorie per sempre le più abbandonate sono gli zingari e i carcerati.

Gli zingari perché non possono avere una comunità propria, una stabilità di contatti; i carcerati, perché moralmente sono i perpetui esclusi dalla stima e dall’interessamento di tutti ed essi stessi si sentono per sempre degli esclusi, dei moralmente reietti, senza via di scampo.

Nella mia lunga esperienza carceraria ho incontrati pochissimi scarcerati che si sentissero serenamente riabilitati davanti alla propria coscienza, l’ombra del carcere li ha fatalmente distrutti per sempre”.

 Dalle carovane la chiamata a servire gli itineranti

Don Dino, ordianato sacerdote il 24 marzo 1928 da mons. Eduardo Brettoni, diventò dal 1930 al 1936 Assistente diocesano della Gioventù di Azione Cattolica e animatore dell’Oratorio inter-parrocchiale di S.Rocco (Reggio Emilia).

Nel periodo in cui si trovava ad operare in questo oratorio, come egli stesso racconta, (lettera pubblicata sul notiziario interno dei Servi della Chiesa: il vincolo del 9 febbraio 1976), gli si era presentata l’occasione di assistere una nomade moribonda:

“Ricordo quel pomeriggio del lontano marzo 1931. Alcuni ragazzi dell’Oratorio don Bosco in San Rocco mi vennero a chiamare: “Don Dino là al mercato c’è una carovana, c’è gente che piange; una donna sta per morire”.

Corsi senza nulla pensare, soltanto preoccupato di portare i conforti religiosi a quella creatura morente.

Fui accolto con tanta cordialità e riconoscenza.

Ricordo quel funerale che fu di edificazione per tutta la Parrocchia di S. Pietro.

Quell’episodio, senza accorgermene, segnava una svolta nella mia vita.

Poche settimane dopo tornai al Mercato vecchio, quasi sospinto da una forza misteriosa. Due carovane e una piccola arena all’aperto sostituivano la carovana già partita per altro destino.

Guardavo incuriosito: una donna stava lavando i panni, s’accorse che cercavo qualcosa … “Padre, venga: siamo cristiani anche noi”. Era la signora Caroli Semiramide, madre dei valenti equilibristi e ginnasti, che molti anni dopo avrebbe finita la sua vita a Scandicci in serenità, nella Casa di Riposo per gli anziani dello Spettacolo viaggiante e del Circo.

Quel qualcosa di misterioso che era entrato in me e forse anche nei miei amici, non si spegneva.

Forse la notizia di quel prete incuriosito era passata fra le famiglie solite a fermarsi a Reggio, nel Mercato vecchio.

Verso la Pasqua dello stesso anno, un signore, il cav. Manfredini, per mezzo di Angelo, un quasi mendicante che con un cane ammaestrato girava per la città e viveva fra le carovane in sosta, mi mandò a chiamare e mi propose di preparare alla Pasqua ormai vicina i componenti del piccolo Luna Park.

Fu una rivoluzione per la mia anima”.

Incominciai a fare conoscenza con le varie famiglie: scoprivo un nuovo mondo di gente cordiale e amica”.

 ASSISTENZA SPIRITUALE AI NOMADI

Nasceva così in don Dino il desiderio di occuparsi dell’assistenza spirituale ai nomadi, come gruppo particolarmente bisognoso nel quadro generale di necessità che si apriva ai suoi occhi.

A S .Rocco cominciò a dar vita ad alcune iniziative di carattere assistenziale, ma soprattutto si preoccupò di organizzare un piano pastorale per le categorie più abbandonate, in particolare per i nomadi. Contemporaneamente maturava in lui l’idea di un gruppo di consacrati che  animassero questo nuovo tipo di apostolato; fondò, allora, la “Pia Società dei Figli del Divino Amore” per sacerdoti e laici, che  presto si sciolse essendosi don Dino, per ordine del Vescovo Brettoni, trasferito nella Parrocchia di S. Teresa, in città.

Il suo desiderio, tuttavia, non era svanito, dal momento che proprio a S. Teresa costituì prima la “Unione Catechisti”, gruppo di giovani chiamati alla vita consacrata, poi i “Piccoli amici di Gesù adolescente” che si sarebbero chiamati, nel 1944, “Piccoli Servi della Chiesa”.

Subito dopo la guerra venivo sollecitato, soprattutto dalle sorelle Foroni, di famiglia oriunda di Villa Masone, che si erano immesse nello Spettacolo Viaggiante e che avevano saputo delle mie prime esperienze fra le carovane a Reggio, venivo sollecitato di darmi a loro per “essere il loro prete”.

La loro insistenza, la dichiarazione che la categoria dei viaggianti era di “sbraioni” gente che fa rumore, ma buona gente, mi faceva molto pensare in quel Maggio a Santa Teresa. Ne pregai tanto la Madonna.

Spinto non so da quale forza, mi decisi di andare dal Vescovo e a parlargliene. Dalle prime parole compresi che Mons. Vescovo era al corrente della mia mania delle Carovane; si fece serio e poi ad una mia esplicita richiesta di interessarmi degli zingari mi rispose: “Non so che dirti, sei parroco, che vuoi di più? Non so che cosa dirti: fai tu”.

Alla mia discreta insistenza di una più precisa indicazione, rispose: “Non so che dirti, ma al di sopra di me, ci sta un altro, il Papa. va a domandarlo al Papa!!”

Rimasi esterrefatto:” Si, si, va a domandarlo al Papa!”.

Confuso e più imbarazzato di prima uscii dall’udienza del Vescovo.

Andare dal Papa, in quei tempi, non era certamente facile come oggi; presentarsi a Pio XII, che nel mio pensiero era così austero, così al di sopra di queste piccole cose.

Lasciai fare al Signore e buttai tutta la mia ansia nel cuore della Madonna e col cuore gonfio di tanta speranza mi misi in attesa degli eventi.

Impensatamente, per vie davvero impensate, poco tempo dopo ebbi la possibilità di ottenere un’udienza del Santo Padre, un’udienza che allora si chiamava “Semi pubblica”.

Le varie persone e i gruppi venivano disposti attorno alla sala.

Il Santo Padre passava di gruppo a gruppo, dava da baciare la mano e Mons. Nasalli Rocca insisteva ad esporre i propri desideri al Santo Padre.

Arrivato a me, con grande rossore dissi: “Santo Padre vengo sollecitato dai nomadi, dagli zingari, dai circhi e Spettacolo Viaggianti, a darmi alla loro assistenza”.

Si fece riflessivo e subito: “Che ne dice il suo Vescovo?” – “Non sa che dirmi, per questo mi ha mandato da Vostra Santità”.

Non rispose e passò al gruppo vicino, poi al secondo… Lo seguivo più che con l’occhio, con il cuore in pena.

Improvvisamente ritornò indietro e poi: “Non c’è nessuno che si interessi di loro?”.

“Non mi consta Santo Padre”.

“Finché non c’è altri che li assista, vada, li assista e faccia di ogni Circo una Cattedrale”. E riprese il cammino verso i vari gruppi.

Rimasi allibito con nel cuore una immensa gioia, quale sola si prova quando si conosce la Volontà di Dio, a determinazioni che segnano l’indirizzo di tutta la vita.

Ritornai al più presto a Reggio e corsi a dire tutto al Vescovo che concluse: “Ebbene fa come ti ha detto il Papa”.

Era la fine di quel Maggio sempre presente nel mio intimo.

Subito mi si presentò il problema della rinuncia alla Casa Parrocchiale che da nove anni reggevo di Santa Teresa.

Il Vescovo mi lasciò libero, e dopo avere esaminato il mio futuro lavoro disse che avrebbe accettato le dimissioni, che gli esposi in iscritto il 1° Venerdì di quel Giugno, che con la accettazione da parte del Vescovo segnò la mia totale donazione ai Nomadi.

Nel 1940 don Dino stesso, Gino Colombo (un giovane laico che sarebbe morto subito dopo), e Alberto Altana (un seminarista teologo), facevano i primi voti privati per una particolare consacrazione a Dio e ai poveri, nella Chiesa locale.

A loro si unirà in seguito Enzo Bigi, giovane operaio alle “Emiiane” di Reggio Emilia.

Con questi giovani, e con il gruppo di adulti che gli si era nel frattempo avvicinato, don Dino fondava l’Istituto secolare “Servi della Chiesa” che veniva approvato dal Vescovo di Reggio Emilia, Beniamino Socche, il 19 marzo 1948, in seguito alla promulgazione della Costituzione “Provida Mater Ecclesia” di Pio XII che riconosce gli Istituti Secolari come stato di perfezione.

Scriveva don Dino:

“19 marzo 1948, festa di San Giuseppe, insperatamente, sua Ecc.za Rev.ma Mons. Beniamino Socche, approvava le prime regole del nostro Istituto, dando così la sanzione canonica alla fondazione della nostra piccola famiglia… Noi ne fummo sommamente felici e tale approvazione ci diede la certezza di fede di essere nella volontà di Dio, perché ci diede una norma di vita che, in forme giuridiche nuove, ci ha concretamente uniti nella realizzazione degli ideali evangelici della consacrazione secolare e del servizio alle categorie abbandonate, particolarmente ai Nomadi, ai carcerati, agli emarginati e alle persone più abbandonate, primo fra tutti, con immenso amore, a Gesù Sacramentato nel servizio della Chiesa…

Siamone sicuri: se osserveremo con fedeltà e fervore la regola e manterremo nel fervore vivo lo Spirito dell’Istituto, si moltiplicheranno le vocazioni, diventeremo santi, consoleremo la nostra Madre, la Chiesa”.

 Ascoltiamo ancora don Dino che vediamo ormai da tempo vagabondare tra un circo e un altro e tra un’attrazione e altra dei Luna Park sparsi ovunque ad annunciare la bella notizia dell’amore di Dio verso tutti i suoi figli…

 “Parlare di sé stessi è sempre una brutta cosa, ma è anche una cosa che costa fatica, per questo, deve essere una cosa meritoria.

E stasera, stanco, sfinito dal mio lungo gironzolare fra le baracche, dopo aver assorbito un caffè offertomi con “violenza” da un baracconista e dato appuntamento a un vecchio prete che “vuole vedere le fiere” del Circo Togni, incomincio a scrivere di questa mia “esperienza” sacerdotale che mi trova sempre agli inizi, anche quando mi sembra di avere fatto qualche passo in avanti.

Io sento che una grande, pacifica rivoluzione è incominciata in me.

Mi guardo nel mio sacerdozio di ormai ventitré anni di ministero e non mi ritrovo più.

È ben spiegabile un angosciante senso di smarrimento! Eppure, venerdì scorso, davanti all’urna di D. Bosco a Torino ho fatto voto di non distaccarmi mai più dalle carovane, pronto a tutto, finché la Chiesa me lo consente e mi benedice, anche alla morte in una baracca.

È forse indiscrezione, è forse turbare il segreto di Dio che per pudore deve rimanere un segreto anche agli occhi del mio spirito, quello di domandare “Signore, per quale via, mi avete portato fin qui”?

Oh! Non è forse è arrivato il grande momento della luce per il mio povero spirito “inquieto”? Ho pagato insofferente di voler star bene: ho camminato, tutti mi hanno giudicato un incostante, sempre bisognoso di novità. Eppure questa mattina quando una zingara dei baracconi mi mostrava due fotografie del 1935 e mi sono visto in mezzo a un folto gruppo di carovanei, ho detto a me stesso: “non ho fatto nulla di nuovo: è una via che continua la mia”.

Ma tanto è crollato del mio passato! Su di esso non so piangere, come qui a Milano oggi non si piange più sui ruderi di palazzi semidistrutti dai bombardamenti che scompaiono, per lasciare il posto a palazzi nuovi che si innalzano con insolenza presuntuosa verso il cielo.

Quando saranno scomparsi del tutto questi ruderi sarà compito dello storico registrare la memoria di ciò che non c’è più.

È forse questo il momento al quale è arrivato il mio sacerdozio: registrare ciò che non è più? Sento che la mia esperienza di apostolato è qualcosa di più grande di quello che si affaccia al mio spirito e del mio dovere dirla ai miei ragazzi che si preparano al sacerdozio, dirla ai miei amici.

Ecco tutto! Questa mattina prima di me al “Padiglione delle danze” ai 48 uomini

del Parco ha parlato un propagandista di Az. Cattolica in modo così arcaico, così lontano dalla realtà che non sono stato capace di ascoltarlo, che ho dovuto uscire con la scusa di invitare gli altri uomini.

I baracconisti, più buoni di me, hanno ascoltato con pazienza e poi uno mi ha detto “vede quell’uomo va bene a parlare ai veri cristiani, a noi, no”.

Ho parlato anch’io della Grazia. Sono stati attenti, capivo che mi capivano perché io parlo per i non veri cristiani. Si, io non predico più come predicavo cinque, dieci, venti anni fa. Non so più pensare a un ministero a orario, di attesa, di riguardi, di convenienza.

Mentre giro nel Parco affollato di gente, mi fermo come d’improvviso e mi domando: se mi vedesse qualche parroco girare così fra questa gente, che cosa direbbe?

Un’angoscia mi prende: è l’uomo vecchio, meglio, il prete vecchio che rinasce.

Poi, stringo più forte nelle mani “la mia vecchia” corona del Rosario e vado avanti.

E non posso più pensare gli uomini come li pensavo cinque, dieci, venti anni fa.

Venti, dieci, cinque anni fa capivo gli uomini peccatori perché contro la loro fede, il loro credo, il loro Dio. Oggi li capisco miserabili perché senza Dio, senza credo, senza fede, eppure ancora salvabili.

Non è quello che mi ha detto in un caffè di via Porta Genova quell’uomo che con tanto candore mi ha fatto la sua storia?

La prima pagina me l’ha fatta leggere sua moglie: “Il bimbo che si prepara alla cresima non è mio e di mio marito: nato da un’altra donna, l’ho preso a 18 mesi perché il sangue di mio marito non girasse per il mondo. Gli voglio tanto bene”.

E mi diceva con tanta semplicità questo suo eroismo che si continua ogni giorno.

Ho rintracciato quell’uomo in un caffè e mi ha detto tutto.

Si era preso cura del bimbo al suo nascere, l’aveva legittimato con atto pubblico; per dimenticare quella donna, per due anni continui, aveva fatto il facchino aggiustando un autoscontro. Non l’ha più vista, non la più voluta vedere per restare fedele alla famiglia ricostruita.

Ora è felice perché è stato compreso, perché il bimbo è in casa con lui, perché ha fatto il suo dovere.

“Domani verrò alla conferenza al Padiglione delle Danze”. Così ha finito.

Io non so come abbia salutato quell’uomo che in un caffè, in mezzo al rumore di tanta gente che entrava e usciva, mi ha aperto tutto il suo animo e mi ha disvelato l’abisso della colpa e l’eroismo di una riparazione.

Credo di aver detto “Voi ambulanti sapete far bene anche il male”.

Non so se mi abbia compreso: ero troppo commosso e troppo felice di aver incontrato un’anima così sincera, così aperta.

Domani, che io possa, Signore, far entrare in quell’anima dalle finestre aperte il caldo raggio della tua verità e del tuo amore”.

 

 

 

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