PREMESSA
Memore dell’invito dei Capitolari, mi accingo a mettere per iscritto alcuni ricordi dei primi tempi dell’Istituto.
Nella visitazione del passato si corre, però, qualche rischio: leggere gli accadimenti avvenuti in una luce diversa da quella originaria, vedere il frutto quando la pianta non è nemmeno fiorita, oppure dimenticare qualche episodio di importanza fondamentale.
Ho cercato di attenermi ai fatti di cui fui testimone in successione cronologica, per non presentare un D. Dino già confezionato in capitoli: la nascita, le sue intuizioni, la sua santità, le sue opere.
I ricordi degli inizi aggiungono poco a quanto hanno già detto D. Altana in “DON DINO…” e DON DINO nei suoi scritti.
Ho l’impressione che alcuni da poco arrivati nell’Istituto, non leggono quanto è stato scritto in questi cinquant’anni e cerchino la conoscenza del FONDATORE a buon mercato.
Ho tentato di presentare D. Dino come lo vedevo allora.
Ho deliberatamente ignorato il periodo che va dal 1972 (anno “dell’inizio del dopo D. Dino”) alla morte del medesimo, perché di quel lasso di tempo non tutto è ancora assodato, acquisito o recepito alla stessa maniera.
Tante figure gravitano attorno al Fondatore dell’Istituto, alcune già nella gloria, altre ancora vivi.
A tutto è dovuto il vincolo della carità, ferma restando la dialettica connaturata alla condizione umana.
Quando lo vidi, la prima volta, in via Fontanelli all’Isola Passatore (R.E), D. Dino aveva 42 anni ed io 17; era l’inizio dell’estate del 1947.
Aveva lo studio a sinistra dopo la prima rampa di scale, studio povero ma accogliente.
A destra c’era una camera per l’ospitalità notturna dei poveri.
La comunità viveva al piano superiore in alcune camere singole per Enzo Bigi, D. Ronzoni e in altri cameroncini per noi futuri servi della Chiesa.
La cappella ben illuminata era impreziosita da un quadretto ad olio posto sopra l’acquasantiera raffigurante una Madonna dolcissima, di buona fattura, di ispirazione giottesca, che D. Dino, a malincuore, dovette cedere ad un antiquario per 25.000 lire per pagare non so quali debiti.
La giornata era scandita da orario ben preciso:
ore 6 alzata; ore 6,30 Meditazione e Messa; 8 colazioni e poi al lavoro fino alle 12,30; 12, 45 esame di coscienza; 13 pranzo e riposo fino alle 14; poi visita al S.S. e al lavoro sino alle 19, tempo del rosario; 20 cena; 21 esame di coscienza e riposo.
Enzo Bigi era economo all’Istituto Artigianelli; alcuni lavoravano come sacristi in Duomo, in S. Francesco; altri dovevano attendere all’Oratorio interparrocchiale.
Alcune cose mi colpirono in modo particolare: l’attenzione e devozione con cui D. Dino celebrava la Messa, l’unirsi a noi nel fare le pulizie della casa, la serenità che sapeva infondere negli altri, la povertà (sarebbe meglio dire miseria) nel cibo, nel vestito, nella casa (dichiarata inagibile).
Qualche volta mancavano i soldi per comprare il solito fiasco di vino per il pranzo o la cena.
- Dino era molto rammaricato, perché c’era un ospite che non gradiva mangiare senza un bicchiere di lambrusco. Era di questo ospite l’avvertimento dato ad un tale che mangiava dell’uva: “E’ un barbaro consiglio mangiare la madre (l’uva) e non gustare del figlio (il vino)”.
- Dino era molto paterno con noi; nelle sere d’estate, dopo la cena, ci portava a passeggio per la città e pagava per tutti un bicchiere di “orzata”, evitando accuratamente certi viali cittadini, perché anche allora non mancavano le prosternate (prostitute).
Era cuoca la signorina Maria Bianchi tutta consacrata all’opera di D. Dino che venerava come un santo.
Chiamava D. Alberto e D. Dino i “santissimi”.
La ricordiamo con affetto come prima serva della Chiesa nonostante qualche suo rimbrotto quando, improvvisamente, aumentava il numero degli ospiti a tavola ed ella era costretta ad allungare il brodo già lungo!
La capacità di Maria nell’arte culinaria era inversamente proporzionale alla sua santità. Aveva una specialità nel preparare certi budini, che D. Dino chiamava “i Sacramentali di Maria”.
Chi conosce la differenza fra Sacramenti e Sacramentali può ben capire quello che intendeva dire.
Mi attardo a scrivere quanto ricordo di quegli anni (anche particolari quasi insignificanti), perché mi pare che, per quanti intendono ritornare alle “Fonti”, sia molto importante tutta la memoria di quel tempo.
Non bisogna però, farsi prendere dall’idea che tutto fosse santo e perfetto, come non erano perfetti i primi cristiani, nonostante Luca dica: “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune”, “prendevano i pasti con letizia e semplicità di cuore”. (Att. 2,44).
Infatti registra anche le infedeltà di Anania e Saffira.
- Dino ci appariva come l’uomo del mistero:
- misterioso era il modo di mantenere la Comunità: tutto dipendeva non da stipendi o calcoli umani, ma dalla Provvidenza quotidiana; poche volte almeno nei primi tempi, riceveva offerte consistenti, ma non mancava mai quella che egli chiamava “la pioggerellina della Provvidenza”; quelle poche migliaia di lire che gli venivano date nei luoghi più impensati.
- misterioso l’apostolato, perché diretto verso persone ignorate anche dalla Chiesa ufficiale;
- misteriosa la sua catechesi fatta con amore, semplicità, pazienza, unione carismatica;
- misteriosa la sua vita. Perché viveva in quel modo? Contante preoccupazione? Che cosa avrebbe fatto di noi? Si capiva in modo chiaro che voleva la nostra santificazione, ma era abbastanza eterogenea la modalità per arrivarci.
Incarnava la figura dell’apostolo che prepara i suoi figli spirituali ad un’avventura mai sperimentata prima con ordine, pulizia, amore fraterno, serenità, anche severità all’occorrenza.
Di fronte alla sua visione del servizio alla “Santa Chiesa” noi eravamo come ammirati e avvinti.
Un giorno gli dissi che lui ci aveva sedotti, in senso biblico; lui non capì e ci rimase male. “Io non ho ingannato nessuno mai”. Ed era vero: sapevamo che la strada da percorrere sarebbe stata difficile e non indolore, ma liberamente e gioiosamente l’abbiamo seguito.
La sua forza vinceva le nostre resistenze, le sue proposte anche difficli erano accolte, perché D. Dino era un uomo credibile e affidabile: prima faceva, poi diceva, poi proponeva, poi sosteneva.
Nella mia mente lo accostavo a Don Bosco con tutti gli accadimenti di questo Santo.
Nei primi anni abbiamo assistito ad un’esplosione vulcanica di iniziative e attività, che ha dell’impressionante: cura dei carcerati, degli scarcerati, degli zingari, dei poveri di ogni genere, collegi in Italia e all’estero, scuole apostoliche…
A volte mi chiedevo come avrebbe potuto portare a termine tante imprese.
Fra tante opere una era al vertice della sua “passione”: l’Istituto Servi della Chiesa.
Mentre D. Altana doveva essere il suo “D. Rua”, a me diceva che avrei dovuto essere il suo “Cafasso”.
- Dino era l’uomo dell’unico ideale (la Santità) e dei mille progetti.
Preparava la nostra ascesi esigendo una intensa vita sacramentale: confessione settimanale; messa e comunione quotidiana; poi rosario, meditazione, esame di coscienza due volte al giorno, devozione alla Madonna, amore al Vescovo e al Papa, mortificazione di ogni genere, disprezzo delle ricchezze e delle comodità, amore all’Istituto, fiducia nella Provvidenza, attenzione vigile a tutte le povertà: materiali, morali, spirituali, sociali…
Tutto questo ritroviamo nei suoi scritti e nelle Costituzioni.
Le note distintive erano tre: il sacramento del Vescovo e della Chiesa; il sacramento dei poveri nella condivisione; il sacramento del servizio in qualsiasi direzione, ma in modo particolare là dove nessuno voleva andare.
- Dino era un uomo tenace, volitivo, intelligente, preparato, aperto, comprensivo, amabile ed esigente con sé stesso e con gli altri.
Suscitava energie ed entusiasmi con proposte sempre nuove, ma nel suo equilibrio (e qui lo accosto a S. Benedetto) dosava anche i pesi e sapeva aspettare coloro che avevano il passo piuttosto lento.
Quando penso a quegli anni e li confronto con gli ultimi che abbiamo vissuto con una crescita stentata dell’Istituto, con lo smantellamento di servizi creati da lui, mi chiedo: dov’è la nostra colpa?
Forse siamo stati poco propositivi. Chi non crea cose nuove, perde anche le vecchie.
- Dino era l’uomo dell’ordine; diceva spesso: “serva ordinem et ordo servabit te”. “Ogni cosa al suo posto e ogni posto ha la sua cosa”.
Ordine anche negli orari.
All’ora dei pasti non si cominciava a mangiare se tutti non erano presenti.
E se qualcuno, senza preavviso, arrivava in ritardo, trovava gli altri in piedi, in silenzio ad aspettare.
All’apparire del ritardatario, scattava il rimprovero: “Vedi? Hai mancato di carità verso tutti noi con il tuo ritardo”. E così invitava alla puntualità per amore dei fratelli.
Rispettoso delle norme del galateo, riprendeva ora questo ora quello: “stai diritto, si porta la minestra alla bocca e non la bocca alla minestra, non allargare i gomiti, le mele si devono mangiare usando il coltello e la forchetta, non bere prima di avere mangiato la minestra, stendi bene il tovagliolo…”.
E dava ragione dell’ordine e del galateo: “dobbiamo essere nobili nel tratto e nel comportamento, perché eleviamo noi stessi e coloro che ci avvicina; è un primo esercizio di ascesi personale e di rispetto per gli altri”.
Nel settembre del 1947 fui “promosso” assistente degli alunni del piccolo Collegio S. Gaetano a Cogruzzo di Castelnuovo di Sotto.
- Dino veniva ogni settimana a farci visita.
Con il mezzo pubblico arrivava sino Castelnuovo di Sotto, poi si faceva prestare da D.W. Pignagnoli la bicicletta con la quale, in modo abbastanza rigido e malsicuro, arrivava al Collegio, per poi rientrare a Reggio sul far della sera.
Appena giunto, si chiudevano i libri e si ascoltava con piacere la sua parola avvincente su Dio, la vocazione, la virtù, la Chiesa…
Aveva un dono speciale di comunicare con i fanciulli e con i giovani, sapeva tenere sveglia l’attenzione con episodi gustosi o edificanti, trasmetteva un desiderio di bontà che sprizzava da tutti i pori.
Dava quanto gli urgeva dentro.
Controllava tutto e tutti: la salute, l’ordine, il profitto negli studi, l’osservanza del regolamento, il vitto, la cucina.
Voleva sapere se il confessore (D. Gualtieri parroco di Fodico) veniva ogni settimana.
Questo santo prete, morto prematuramente, era fedele al suo compito svolto con grazia e senza paga.
Dopo un anno D. Dino decise di farmi riprendere gli studi a Guastalla, perché conosceva il mio disagio non tanto per l’assistenza ai fanciulli quanto per il continuo ritardare nel completamento del curriculum studiorum.
Nell’ ottocentesco palazzo S. Carlo di Guastalla all’ultimo piano erano alloggiati 40 alunni delle elementari, delle medie, del liceo e della teologia: il collegio S. Giuseppe.
Anche qui grande miseria, perché, i ragazzi erano figli di poveri genitori, che non avevano possibilità di pagare una retta mensile degna di questo nome.
Qualcuno versava cento lire al giorno.
Ricordo che una sera gli alunni si lamentarono per il vitto poco buono, in specie per il latte in polvere.
Fu avvisato D. Dino che suggerì di fare tutti gli sforzi possibili per migliorare il vitto, cercando anche di far capire che con le rette pagate non c’era da farsi illusioni.
Le lamentele cessarono alla svelta, perché un giorno dopo la meditazione, dissi agli alunni: “siccome vi lamentate dal vitto, vi dò cento lire a testa e voi al mattino andate al bar, mangiate quel che volete, e così a mezzogiorno e alla sera in trattoria con i soldi che vi sono rimasti dopo aver pagato il bar”.
E tutto finì lì, perché con cento lire anche 50 anni fa c’era poco da scialare.
- Dino era orgoglioso di certi risultati scolastici, come quando, un anno, il Vescovo Mons. Zaffrani dovette ammettere pubblicamente che gli alunni del Collegio di D. Dino avevano superato in profitto i seminaristi.
Se il seminario era la pupilla del Vescovo, il Collegio S. Giuseppe era il cuore di Don Dino.
Il buon esito dell’Istituto pareva dipendesse da quello del collegio, per il quale compì sacrifici di ogni genere.
Come godeva quando nelle ricorrenze di S. Giuseppe o dell’Immacolata (festa grande per le due camerate) veniva a celebrare la messa solenne e ad ascoltare le nostre poesie, mentre a tavola si banchettava con i parenti degli alunni!
Per completare la nostra formazione e differenziarla da quella del Seminario, veniva tre giorni all’anno per stare cuore a cuore con noi e illustrarci i progetti che aveva in animo di realizzare.
- Dino aveva investito per il suo Seminario una équipe formidabile: D. Barbieri, D. Altana, Bigi, D. G. Reverberi.
Per alcune ore pomeridiane una volta alla settimana era in mezzo a noi, ci esponeva i suoi progetti e, come sempre, controllava l’ordine, gli studi, l’osservanza del regolamento.
Diventava sempre più chiara la finalità del Collegio e dell’Istituto: servire, servire, dare tutto senza nulla pretendere.
- Dino non si smentì mai: sempre pronto a suscitare energie di bene, a incoraggiare, a correggere, a fare o modificare progetti con il “materiale umano” che aveva a disposizione.
La povertà era come un fatto logico, naturale, ma lui vegliava e contrastava anche ogni parvenza di inizio di cedimento.
Niente saponette, niente radio, niente rasoi elettrici, niente oggetti personali di ornamento.
Quando un inverno vide il futuro D. Mario Pini con i guanti, gli disse: “Bravo, i tuoi guanti vanno bene ad un carcerato di Reggio” e se li prese.
Come reagì D. Mario, fatevelo raccontare da lui.
Ci studiava singolarmente, e secondo le attitudini, indirizzava ai vari apostolati.
Sapeva essere esigente e inflessibile quando le necessità dell’Istituto urgevano fino a richiedere l’interruzione degli studi, come toccò a non pochi di noi.
L’istituto doveva avere sempre la precedenza.
Le vacanze estive di noi studenti erano considerate un lusso. “I poveri non fanno vacanza”, diceva.
E allora, d’estate, eravamo dirottati nei vari servizi in tutta Italia.
E perché ciò divenisse come un dato culturale, abolì l’espressione “vacanze in famiglia”, si doveva dire: “visita in famiglia”, visita che non poteva durare più di otto giorni.
- Dino era preso da una “passione” divorante per le vocazioni.
Nel suo peregrinare da un capo all’altro dell’Italia, continuava a portare alunni, molti dei quali più che la vocazione, avevano (come diceva lui), la “bocazione” cioè la fame.
Non so quanti ragazzi siano passati dall’inizio del Collegio alla sua chiusura nel 1975: penso siano alcune migliaia.
Nei primi tempi il cinquanta per cento abbandonava dopo un anno, subito rimpiazzato da altri alunni della Sicilia, della Sardegna, della Toscana, del Lazio…
Accoglieva seminaristi poveri che non potevano permettersi di pagare la retta nei seminari diocesani, supplicava i parroci di fargli dono di qualche vocazione.
E quanta sofferenza quando qualcuno, specialmente se dal corso liceale o teologico, si allontanava!
Quanto soffrì nel terribile ’68 quando perdemmo quasi tutti i liceisti e i teologi trasferiti a Reggio E. per la chiusura del Seminario di Guastalla.
Almeno 15 sacerdoti dell’Istituto sono passati per un periodo più o meno lungo dal Collegio S. Giuseppe.
Non mi dilungo nei ricordi di questo periodo, perché già tanti hanno vissuto quei tempi e possono dire molte cose su D. Dino e l’Istituto.
Quanti non l’hanno conosciuto di persona, non devono sentirsi privati di una cosa assolutamente necessaria, perché il vero D. Dino vive nei suoi scritti, nelle Costituzioni, nelle sue opere, e anche quelli che lo hanno conosciuto “secondo la carne”, ora non lo debbono conoscere più così, ma secondo lo Spirito che supera ogni relazione umana e ogni categoria di tempo e di spazio.
Castelnovo né Monti
memoria di S.ta Marta
29/07/1996