Francesco Braghiroli
Di seguito vi proponiamo il testo dell’intervento di Francesco – diacono da poche settimane – fatto alla giornata di studio tenutasi a Reggio Emilia dedicata ai 50 anni della comunità del diaconato in Italia, fondata da don Alberto Altana.
Ho conosciuto don Alberto alla fine degli anni ‘80. La prima volta che l’ho visto – non sorprenderà – era nel corridoio di un ospedale con Savina, serva della chiesa: andavano a visitare gli ammalati.
La prima impressione che ebbi vedendolo, confermata dal ricordo che ho del periodo in cui mi ha ospitato tra l’89 e il ’91, è soprattutto questa: un prete completamente consegnato al suo ministero; completamente consumato nel suo ministero. So che don Daniele ha usato questa espressione stamattina. Ma vi assicuro che non ci siamo messi d’accordo e che non l’ho copiato. È venuta così. Capita.
Don Alberto avrebbe detto di questo – ma non di sé –: consegnato come Cristo sulla croce e consumato come Cristo sulla croce. Ricordava spesso che le ultime parole di Gesù in Gv 19 “tutto è compiuto” sono rese dalla Vulgata con “consummatum est”.
Non sorprenderà dicevo, che lo si incontrasse mentre andava a trovare gli ammalati, perché come sapete ci andava spesso. Non perché gli piacesse, ci teneva a dirlo, ma perché era necessario e urgente. Erano tra l’altro i tempi in cui, come si ricordava stamattina, l’AIDS uccideva, e uccideva prima dal punto di vista sociale, poi, per davvero.
In uno degli ospedali della città don Alberto usava l’ascensore riservato al personale ospedaliero. Diceva: “Sono una persona. Vengo sempre all’ospedale. Dunque io sono personale ospedaliero!”. L’ascensore era protetto da una serratura ma lui la forzava con la chiave del tabernacolo. E diceva: “Ogni tanto cambiano la serratura e per i primi giorni un po’ mi resiste. Ma poi si converte anche lei…”.
Don Alberto visitava gli ammalati spesso, dicevo, con tenacia, con determinazione, con ostinazione. Desiderava, quando poteva, restare accanto a loro fino all’ultimo respiro.
Aveva una fede straordinaria nell’efficacia dei sacramenti, per la salvezza eterna. Per questo desiderava restare accanto a loro fino alla fine: per vederli andare in paradiso. Colpiva molto vederlo seduto accanto al malato, attendere quel momento: mentre i parenti piangevano e noi eravamo un po’ a disagio, lui pregustava e contemplava l’incontro di un’anima con lo Sposo celeste. Non tutti capivano, noi non capivamo, ma lui non rinunciava, come sempre. Poi prendeva in giro noi che andavamo ai funerali dei giovani che avevamo conosciuto al reparto infettivi, morti a causa dell’AIDS: “le cose che servono sono quelle che avete fatto prima – annunciare il Vangelo, portare la Comunione”.
A qualunque ora lo chiamassero, lui andava. Soprattutto per i Sacramenti perché, diceva: “ne va della salvezza”. Però bisognava accompagnarlo, perché don Alberto, sapete, non guidava l’auto. Aveva avuto la patente prima di tutti noi – ci teneva a ricordarlo. Ma l’aveva lasciata scadere perché gli era sembrata una cosa borghese, incompatibile con il voto di povertà. Allora andava in bicicletta o in motorino. Poi, a un certo punto, si lasciò accompagnare sempre dappertutto. Spesso, di giorno, come ricordavo, da Savina; ma di notte chiedeva a noi di casa.
Vorrei allora ricordare un episodio, che è una mia debolezza di allora, ma per dire cosa pensava lui.
C’era una persona che telefonava ogni notte, nel cuore della notte, e chiedeva di parlare con lui, chiedeva di vederlo. Allora bisognava accompagnarlo. Vedete questa persona abitava poco lontano da qui e poteva spostarsi – di fatto veniva a trovarlo qui in via Adua tutti i giorni e si confessava tutti i giorni. Ma poi la notte telefonava, io rispondevo al telefono e bisognava andare, subito! E per don Alberto subito significava subito. Ogni notte. Sapete che si dormiva poco qui in via Adua 79 in quegli anni: la porta era sempre aperta e in ogni spazio disponibile c’era qualcuno che cercava di passare la notte al riparo – sui gradini, accanto alla caldaia, in baracche allestite sul tetto della cosiddetta “lavanderia”, … Così una notte mi sembrò di essere troppo stanco e quando il telefono squillò, lo staccai – anzi a dire il vero strappai proprio i fili. Quando il mattino dopo don Alberto lo seppe si arrabbiò moltissimo – una delle sue sfuriate famose, con i pugni battuti sul tavolo – chi ha avuto l’occasione, le ricorda certamente. Credo l’unica sfuriata che mi abbia fatto personalmente; ne abbiamo ricevute altre collettive. Gli chiesi scusa, ci riconciliammo, gli chiesi di confessarmi. Poi lo accompagnai a trovare quella persona. La sera, durante la Messa in casa, don Alberto propose di pregare per me: “Preghiamo per Francesco, perché gli piace dormire”.
Ecco: per don Alberto, quando non si vive come una Beatitudine lo svegliarsi di notte per servire i poveri, è già peccato, perché è una occasione di Grazia perduta.
Ci diceva: “E non brontolate. Gesù andando in croce non ha brontolato: ci è andato e basta”.
È stato ricordato che don Alberto diceva spesso: “cosa significa ‘dare’? significa dare tutto.
E tutto significa tutto. Appunto. “Amare fino alla fine come ha fatto Gesù – diceva – è dare tutto, senza limiti”. E anche: “La misura del nostro donarsi sta nel non avere misura.” A questo ha fatto un accenno il vescovo stamattina.
Don Alberto amava particolarmente ricordare le due dimensioni della diaconia: quella della sottomissione e quella del servizio. Ecco: sottomissione e servizio, schiavi e servi, aspetti distinti e complementari della diaconia del Signore Gesù. Cristo servo è Colui che determina e qualifica il nostro essere Chiesa: amore che si sottomette e che si orienta al bisogno.
Il sottotitolo di questa giornata è: “profeta della diaconia”. Parole certamente importanti per d Alberto – se ne è parlato stamattina. Siccome non so parlare, vorrei esprimere queste cose con alcuni espressioni sue. Sembreranno dure forse, ma lui era così. E in quegli anni, a circa venti anni dall’inizio del cammino per il ripristino del diaconato permanente e a dieci dalle prime ordinazioni a Reggio Emilia, cominciava a esprimere un po’ di amarezza.
In cosa consiste la profezia del diaconato? Nell’aiutare la comunità cristiana a conformarsi alla volontà di Dio, cioè a essere serva e povera, in una prospettiva missionaria, cioè di annuncio.
Il ministero del diacono è intrinsecamente missionario:
1. Perché è consacrato al servizio cioè all’amore, e l’amore è fine e oggetto dell’annuncio.
2. Perché il ministero del diacono è per il rinnovamento della chiesa in senso ministeriale, quindi missionario.
Il fine della Chiesa, diceva, è la Salvezza e quindi l’evangelizzazione di ogni creatura. E la chiesa si realizza nella Eucaristia, fonte e culmine. È stato detto qualcosa su questo poco fa parlando di 6
Dossetti. Dico una cosa simile, ma qui c’è una implicazione in più. Il diacono, attraverso il servizio, conduce all’Eucaristia e nello stesso tempo fa sì che dall’Eucaristia, sacramento dell’amore, scaturisca il servizio, che è amore che si dirige al bisogno.
La vocazione alla diaconia, vocazione di tutta la chiesa, è l’immedesimazione con il Signore Gesù, servo-schiavo. Al centro della vita della Chiesa, che è sacramento universale di salvezza, c’è la diaconia, il servizio cristiano, che è partecipazione alla diaconia di Cristo servo e povero. Il servizio, la diaconia, è tutto, è Cristo che dona la sua vita, cioè tutto se stesso.
Quindi, se il diaconato ha un senso, esso è quello di essere veicolo e strumento di Grazia in vista della diaconia nella chiesa, cioè di un servizio capillarmente diffuso nella chiesa, nelle nostre comunità.
Diceva don Alberto a proposito della identità del diacono: “la identità è questa, già chiaramente espressa nel Nuovo Testamento”.
Se la chiesa, dopo il ripristino del diaconato, con il diaconato, rimane come prima, allora significa che abbiamo spento la Grazia. E quindi significa che il diacono “non serve” – e voi capite che un servo che non serve …
È un po’ come il sale che perde il sapore.
Allora il diaconato o è questo – sottomissione e servizio per il rinnovamento della chiesa in senso missionario per la salvezza di ogni persona – oppure semplicemente non è.
Ecco per don Alberto, questo è diaconia profetica.
Il diacono consegnato come Cristo sulla croce e consumato come Cristo sulla croce.
(da Diaconia di gennaio 2017)