Intervista all’autore del volume «Il calice di legno»
Edoardo Tincani direttore de “La Libertà” intervista Sandro Spreafico autore del libro su don Dino Torreggiani “Il Calice di Legno”
Don Dino non si chiama mai fuori dalla grande storia. Anzi, vi si caccia dentro, beninteso con il suo stile, preveggente e nutrito di realismo cristiano. Così, dinanzi a scenari di macerie, di fame, di famiglie disperse dalla guerra, dà fondo ad ogni energia per occuparsi dei rottami morali e sociali; ma intanto agisce sulle coscienze e sui cuori per costruire nuove generazioni di laici per la società e per la Chiesa, che deve affrontare le incognite della ricostruzione postbellica.
Perché la dimensione caritativa dell’intera opera di don Torreggiani – che con i suoi collaboratori, sacerdoti e laici, si è occupato di educazione dei fanciulli, di assistenza a carcerati, zingari, immigrati – non deve lasciare nell’ombra la centralità della sua “pedagogia del recupero”?
Don Dino educatore guarda a don Bosco. Sia che si tratti di ragazzi di strada oppure di ex carcerati e di “senza tetto”, la carità è sempre accompagnata dall’obbligo di rispetto delle regole e da un progetto di recupero: dagli oratori d’Italia e Spagna, ai collegi, alle case di accoglienza. Questa linea gli costa anche divergenze con alcuni dei principali collaboratori.
Quale significato e quale peso ebbe, nella cinquantennale fatica di don Torreggiani e dei suoi amici, la specifica cura spirituale dei carcerati e degli ex carcerati, in diverse regioni italiane?
Insieme a don Giuseppe Girelli veronese, don Dino contribuisce, a partire dagli anni Cinquanta, non solo ad impostare una pastorale carceraria seria ed organica, che esige cappellani preparati, ma ad orientare la prima riforma nazionale del sistema carcerario, che comprendeva circa duecentoventi luoghi di detenzione.
Perciò riceve lusinghieri riconoscimenti da parte delle autorità civili e da maestri del diritto processuale. Sulle orme del beato Giuseppe Cafasso intende incontrare “il grande esercito dei carcerati”, per i quali fonda la rivista “Quaderni di pastorale carceraria”, inventa forme di ascolto e di assistenza, elabora originali strumenti di educazione spirituale.
L’impegno a favore dei nomadi conduce don Torreggiani a realizzare una complessa rete di opere e di collaboratori sull’intero territorio nazionale.
Quali i successi più interessanti, le sconfitte, le resistenze incontrate?
L’attenzione all’universo dei nomadi comincia con la fortuita assistenza ad una moribonda; coinvolge le donne di Azione Cattolica di varie diocesi; diventa prassi missionaria personale, lungo tutta la penisola, a partire dal 1951; compie un salto di qualità con l’incontro del cardinale Marcello Mimmi, vescovo di Bari e poi di Napoli, del cardinale Siri di Genova, infine di Sennen Corrà vescovo di Chioggia. Don Dino, che intanto ha conosciuto i lavoratori dello spettacolo viaggiante, fonda per i loro figli le Case-collegio di Treviso e Badia Polesine. Assume la direzione nazionale dell’OASNI, che poi si trasformerà nella “Migrantes CEI”; coordina una fitta rete nazionale di collaboratori, religiosi e laici, con il sostegno di Paolo VI. Trova ostacoli nella scarsezza delle forze ed in una diffusa refrattarietà da parte delle parrocchie ad accettare i nomadi come membri della Chiesa.
La restaurazione-rifondazione del Diaconato permanente in Italia ebbe in don Torreggiani il suo profeta e, poi, nel discepolo Altana l’instancabile organizzatore. Quali le premesse ecclesiologiche?
Don Torreggiani inscrive la figura del diacono in una Chiesa “tutta ministeriale”. Conosce i timori del clero e li confuta con argomenti positivi: il diaconato restituirà il sacerdozio a funzioni più autentiche, liberandolo da indebito attivismo, e ridurrà i rischi di una gestione monocratica, paternalistica, acarismatica delle comunità di fede parrocchiali. Ma, soprattutto, egli concepisce il diacono come “un ambasciatore della volontà di riforma della Chiesa”.
Perché è importante studiare e capire la preistoria dei Servi della Chiesa, riconosciuti nel 1948, e quindi gli anni che vanno dall’esperienza dell’Oratorio San Rocco al parroccato in Santa Teresa?
“San Rocco” non fu solo un oratorio, un cantiere di pastorale giovanile, ma una prima scuola per sperimentare nuove forme di carità e di servizio, per interpretare fermenti spirituali che, da tempo, agitavano la Chiesa locale. Nel successivo decennio di parroccato in Santa Teresa, don Dino, mentre rilancia associazioni tradizionali, prepara le condizioni, dopo dolorose defezioni, per fondare, in piena guerra, il primo minuscolo gruppo dei Servi della Chiesa: al suo fianco solo Alberto Altana ed Enzo Bigi, educati a riconoscere in Gino Colombo, giovane catechista scomparso, una sorta di protosanto e protettore dell’Istituto.
Nella Chiesa sognata da don Torreggiani come si conciliano valorizzazione dei carismi e obbedienza all’Istituzione, azione sociale e intensa vita di pietà, pronto soccorso e programmazione responsabile?
Studiando don Dino e i suoi amici, si misura con quanto impegno e passione essi abbiano tentato di realizzare questo ‘sogno’. Prima di tutto l’obbedienza: “nihil sine episcopo”.
Poi il servizio: “essere semplici stracci per togliere la sporcizia”. Questa “teologia dei cenci” è centrale per calibrare il rapporto tra carisma e istituzione. L’obiettivo deve essere una Chiesa della “comunione”.
Perciò egli scrive: “Ogni notizia triste della Chiesa è una ferita. Ogni vocazione tradita, ogni Seminario vuoto, ogni contestazione al Papa è una morte per questo mio povero cuore”.
Come e perché don Torreggiani sottopone sempre le proprie iniziative a rinnovate approvazioni da parte dei vertici della Chiesa, ottenendo un mandato ufficiale da Giovanni XXIII, protezione e collaborazione da Paolo VI, gratitudine da Giovanni Paolo II?
La missione in Spagna, che tanti tormenti porterà a don Dino, inizia con una benedizione speciale di papa Giovanni XXIII. L’amicizia con Paolo VI era cominciata allorché questi era ancora arcivescovo di Milano, a motivo del comune impegno a favore dei nomadi. Da Giovanni Paolo II ottiene il riconoscimento della pluridecennale fatica dei Servi, inviati a fondare una parrocchia nella difficile periferia romana della “Magliana”. Il sentirsi in ordine con i vertici della Chiesa lo conferma nella certezza che l’Istituto è “opera di Dio”.
Come si spiegano gli intrecciati e continui rapporti che don Torreggiani coltiva con molte famiglie religiose, maschili e femminili, sparse in tutta la penisola, attraverso visite, ritiri spirituali, consultazioni alla vigilia di importanti decisioni, fitta corrispondenza epistolare?
Nella sua concezione fortemente mistica della vita della Chiesa, i peccati come le grazie coinvolgono tutti. Da ciò il quarto e più delicato voto di “espiazione”, come coronamento degli altri. Si coglie, leggendo il don Dino segreto, un bisogno non solo spirituale, ma quasi ‘fisico’ di sentirsi in sintonia con tutta la sua Chiesa, soprattutto con quella ‘orante’. Perciò ogni iniziativa deve essere accompagnata dalle preghiere e dai piccoli sacrifici richiesti e offerti, soprattutto, dalle monache di clausura di molti monasteri italiani e spagnoli.
La presenza dei Servi della Chiesa in Spagna e in Madagascar (più tardi anche in America latina) è solo un segno visibile della necessità per la Chiesa, come don Torreggiani la intende, di lasciarsi alle spalle una tradizionale “pastorale dell’attesa” per abbracciare una “pastorale missionaria”. Ma tale necessità, insegna don Torreggiani, precursore del Concilio, non deve forse impegnare ogni comunità di fede locale nella sua testimonianza quotidiana?
Il superamento di una “pastorale dell’attesa” per fare posto ad una “pastorale missionaria” è motivo che sostiene don Dino già negli anni Trenta, allorché egli si ‘accampa’ anche tra la popolazione dell’oltre-Crostolo, prima del tutto trascurata e lasciata a se stessa, per garantire un minimo di assistenza religiosa. Tale è ancora lo stile, che egli pratica e insegna, per ricostruire la parrocchia di Santa Teresa, fucina non solo di intraprendenti catechisti, ma anche di protagonisti, di lì a poco, della storia civile e religiosa reggiana.
Qual è il significato ecclesiale complessivo dell’esperienza delle “Tre Famiglie”, fondate da Torreggiani, Dossetti e Prandi, che si ritrovano per camminare insieme?
Per usare le parole di don Dino, le “Tre Famiglie” nascono da un abbraccio, lungamente inseguito, tra la Chiesa dell’accoglienza, la Chiesa della contemplazione e la Chiesa della carità, fondate da tre figli della comunità di fede reggiana. Dopo faticosi peripli personali, essi sono ricondotti sul medesimo crocevia dalla convinzione, ora sussurrata ora audacemente dichiarata, di contribuire a preparare “una piccola era nuova nella Chiesa di Dio”. Il rapporto tra don Torreggiani e don Prandi è talora dialettico, ma le divergenze e gli abbracci ne attestano la consapevole complementarietà.
Dossetti dichiara che il magistero di don Dino, dalla stagione di “San Rocco”, ha orientato del tutto la sua esistenza; i due si incontrano, un’ultima volta, alla vigilia del viaggio del fondatore dei Servi in Spagna, dove muore sul finire dell’estate 1983.
EDOARDO TINCANI
Dal settimanale “La Libertà'”