don Daniele Simonazzi su don Alberto Altana
Innanzitutto vorrei ricordare una persona che è stata vicina a don Alberto forse più di tutti noi, e per più anni di tutti noi, e che è presente qui: Nello.
Lui è quello che ha abitato per più tempo con don Alberto; non solo ha abitato, ma lo ha servito. È stato servo del servo, Nello. Lo ha anche sopportato, perché don Ambrogio non ha ricordato una frase a riguardo del rapporto di don Alberto con l’Istituto, che diceva che don Alberto “è come un’opera d’arte: tutti la ammirano, ma nessuno la vuole”.
Io ho abitato con lui dal giugno 1979 (fui l’ultimo a cui il vescovo Gilberto concesse di finire la teologia fuori dal seminario), fino all’estate del 1991, quando don Giovanni gli chiese di andare in san Domenico.
Ci sono anche qui oggi don Paolo e Marina di Barco, che furono i primi a cui comunicai la mia scelta di entrare nei Servi della Chiesa. Io andavo a fare servizio a Barco, e là ho conosciuto gli zingari, perché la domenica i Rom mangiavano lì. Io stavo a dormire a Barco il sabato sera e una sera tardi comunicai loro questa mia intenzione e furono i primi a saperlo. E loro erano molto preoccupati per la motivazione legata alla figura di don Alberto. Quindi io ringrazio pubblicamente don Paolo.
Una domenica sera, tornando da Barco, passai da via Reverberi e incontrai don Alberto che mi disse: “Se tu hai intenzione di entrare nei Servi della Chiesa, sappi che: difficilmente riesci a dormire due notti di fila; i poveri ti chiamano a tutte le ore; non riuscirai a dare tutti gli esami; l’Istituto ti chiederà di rimandare l’ordinazione, perché ti manderà in tutti i posti; e tieni presente anche che i poveri vengono a casa e spaccano tutto”. Io non mi scomposi.
Così è stato il mio incontro con don Alberto, che peraltro avevo già conosciuto, perché lo ero andato a chiamare per un campo di Azione Cattolica.
L’incontro vero è poi stato quella domenica sera tornando da Barco, in una comunione e amicizia vera con don Paolo e Marina, che è continuata poi e che continua tutt’ora.
Poi vorrei dare una testimonianza anche di un’altra persona che adesso non c’è più, laica: Guido Borciani, fratello di Paolo Borciani, che era il primo violinista del Quartetto italiano, e di cui saluto con affetto i parenti.
Guido andava a scuola con don Alberto, e mi ha raccontato altri aspetti della sua vicenda al liceo classico, dove lo chiamavano “il biundein” e che aveva a sua volta un buon seguito femminile…
“Appunti per un profilo spirituale”: appunti come quelli che prendeva don Alberto riempiendo con poche parole una pagina intera.
Mi veniva da pensare che il Signore ha riempito con un’unica parola, servizio, la pagina della sua vita. Il Signore ha preso con lui ancora meno appunti di quelli che non ha preso don Alberto, in una pagina intera.
Credo che sia bene iniziare da lì, per provare ad abbozzare “appunti per un profilo spirituale” della sua vita.
L’importante è che la sua vita sia un prendere appunti rispetto alla Parola di Dio. Don Alberto non aveva fans, non aveva gente che si spostava fuori diocesi per andare ad ascoltarlo, non ha mai avuto nessuno che lo ha seguito, tranne sporadicamente e a più riprese, “tutti lo ammiravano e nessuno lo voleva”.
Nella vita di don Alberto c’è appuntata una parola, la sua vita è stata una pagina in cui Dio ha scritto una parola: servizio.
Tanto è vero che don Alberto commentava la Parola guardando continuamente in alto; difficilmente guardava l’assemblea, un po’ per la sua timidezza…
E guardava continuamente in alto, perché commentando la Parola, lui, della Parola, era l’appunto. Non la esauriva, ma il Signore ha scritto sulla sua vita, nella sua vita, la sua parola: un’unica parola, che è l’amore, la carità.
Appunto: “come il Figlio dell’Uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita”. E mi piace punteggiare questo versetto in questo modo: appunto – due punti – “come il Figlio dell’Uomo che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita”.
È chiaro che la testimonianza che ci viene da don Alberto non è la testimonianza di don Alberto; è quello che il Signore ha scritto nella sua vita. La “normatività” non viene dalla vita di don Alberto, viene come per noi, per lui, dalla Parola di Dio.
E c’era un versetto del Vangelo che lui citava spesso, soprattutto del Vangelo di Marco: “Tutto vuol dire tutto”. Questa era una delle espressioni più tipiche sue, ed è uno degli aspetti del profilo di don Alberto che lui traeva dal Vangelo di Marco in particolare, in cui appunto questa parola “tutto” ritorna con più frequenza. Anche quando torna questa parola nella Passione: “Tutti, abbandonatolo, fuggirono”.
Tanto è vero che disse ad una persona: “Io non ti so essere di grande aiuto”. Cominciavano a calare le sue forze, e in una di quelle intuizioni che aveva, quando ti chiamava in camera prima di andare a dormire e diceva: “Passa da me”. E a questa persona diceva: “Io non so che intenzioni tu abbia in futuro. Io non ti so essere di grande aiuto, però sappi che se tu continui per questa strada sarai sempre più solo”. Perché “tutto vuol dire tutto”, poi il Signore ha disposto anche altre cose, ma a questa persona diceva così, cosa che si è poi puntualmente verificata.
Anche il profilo spirituale di don Alberto riguarda la totalità con la quale lui ha dato tutto, ma mi pare soprattutto che con don Alberto il Signore ci ha dato tutto.
È vero che con la sua vita ha commentato il Vangelo, ha fatto gli esercizi… ma mi pare che ancora prima sia stato il Vangelo a commentare la sua vita. Lui ha fatto l’esegesi del Vangelo, ma il Vangelo ha fatto anche la sua esegesi.
Sarebbe interessante riprendere che cosa, da quando aveva 17 anni, cioè quando c’è stata la sua conversione, che cosa chiese al Signore: la salvezza delle anime. È stato una realizzazione della volontà di Dio, ma io ho l’impressione che la grandezza di don Alberto sia proprio consistita in questo: che il Vangelo ha commentato la sua vita; si è lasciato commentare dalla Parola, e quando ci si lascia commentare dalla Parola, ci si lascia dire dalla Parola e non si ha la pretesa di dire della Parola, ma ci si lascia dire dalla Parola quello che siamo.
Me lo faceva notare un nostro amico comune, Roberto, che leggeva alcune note scritte su don Alberto dove si leggeva la vita di don Alberto alla luce dei versetti della Parola. Il Vangelo ha detto di lui. Tanto è vero che una delle parole che ritornano con più frequenza commentate da don Alberto era la parola “parresia”, coraggio.
Che ne è allora delle nostre comunità e delle nostre Chiese? Parliamo di valori, parliamo di etica, parliamo di educazione, ma non parliamo più del Vangelo, il Vangelo non commenta più… La mia vita di prete non commenta più la vita della mia parrocchia, della mia comunità. Non glielo lasciamo più commentare, il Vangelo, il Vangelo non fa più l’esegesi della mia vita.
C’è un mutismo che Isaia definirebbe il mutismo dei “cani muti”.
Il Signore ha parlato nella vita di don Alberto, ha commentato la sua vita. Mi verrebbe da dire che non c’è versetto che non parli della vicenda di don Alberto. Dicendo di don Alberto e scrivendo nella pagina della sua vita un’unica parola: la carità, il servizio, inteso come immedesimazione: questa era la parola che usava.
Quindi, naturalmente, provare a vedere le ricadute ecclesiali per cui oggi mi piacerebbe che non avessimo fatto semplicemente un convegno a dieci anni dalla morte, ma che il nostro fosse un convegno a dieci anni da vivere, di una Chiesa spesso afona, che fa fatica a considerare suoi figli i poveri.
Poi c’è un altro aspetto. Don Valter (che è un prete che spiritualmente non era vicino a don Alberto), mi diceva l’altro giorno: “vi siete dimenticati di un aspetto della vita di don Alberto che è stato l’insegnamento della morale”. Lui aveva una rigorosità morale che sapeva coniugare con una grande intuizione pastorale, che era quella di partire dalla Scrittura, dal Vangelo. Ci faceva delle lezioni memorabili… noi che venivamo invece da lezioni dove c’era il principio secondo il quale uno peccava o non peccava!
Allora mi pare che la carità pastorale di don Alberto, lui l’abbia vissuta soprattutto per la salvezza di ogni persona. In questo senso, prendendo alla lettera non solo la volontà di salvezza del Signore per ogni persona, ma anche il modo in cui il Signore ci ha salvato, cioè la povertà.
Per cui, da un certo punto di vista, il profilo spirituale di don Alberto è quello della povertà. A lui piaceva molto citare il discorso che Lercaro ha fatto al Concilio (e gli piaceva molto anche dire che questo discorso glielo aveva fatto don Giuseppe Dossetti), dove si diceva che la povertà della Chiesa è la vera questione del Concilio. La povertà non è mai stata per don Alberto una modalità opzionale nel suo cammino spirituale, ma la povertà l’ha sempre vissuta come la condizione, perché nel mistero dell’incarnazione la povertà non è una scelta che uno può o può non fare, la povertà rende possibile l’incarnazione. È stato commentato l’inno ai Filippesi stamattina, ma dobbiamo stare attenti: Gesù nel Vangelo piuttosto rinuncia a dire che cosa i discepoli devono dire, ma non rinuncia a dire come devono andare ad annunciare il Vangelo, nelle condizioni che sapete.
Diversamente da don Dino, che era povero, don Alberto ogni mattina doveva scegliere di essere un Servo della Chiesa, scegliere la povertà come condizione, una condizione che viene ad identificarsi con il modo in cui lui ha inteso la condivisione con i poveri. Tanto è vero che per lui intendeva il voto di povertà come un vincolo di amore nuziale che lega a Cristo. Don Alberto ha amato, perché ha amato da povero. La Chiesa ama, perché ama da povera.
Noi non coniughiamo più la parola servo alla parola povero, perché per noi il servizio dipende dalle risorse con cui serviamo. Se le abbiamo, serviamo, se non le abbiamo, non serviamo. Per il mistero dell’incarnazione, il discorso è esattamente opposto: se no ci facciamo deridere dal mondo. “Così è di chiunque non rinuncia a tutti i suoi averi”. Non si può dubitare dell’amore di don Alberto, perché non si può dubitare delle sue scelte di povertà.
Si può dubitare dell’amore della Chiesa? Sì, quando non fa scelte chiare di povertà. A cominciare dal parroco di Pratofontana. Lui aveva teorizzato anche una ristrutturazione degli uffici economici della curia. C’è uno scritto formidabile a questo proposito. Poi sul fatto che lui diffidasse della cultura… io lo prendevo in giro e gli dicevo: “Tu diffidi della cultura, perché la conosci e ce l’hai”. Vi lascio immaginare la sua reazione.
Adesso noi sorridiamo su questi aspetti, ma per don Alberto erano essenziali. Ai servi diceva: “Sono per voi il cane da guardia della povertà”. Diceva che avrebbe distrutto tutto ciò che della nostra casa non ne avesse fatto una casa povera per i poveri.
Allora il buon senso, naturale, certo; il fatto che alcune scelte anche di tipo economico siano naturali, ma non so se possono fare parte del vocabolario della Chiesa e se la Chiesa si possa appropriare di un vocabolario in ordine alla povertà, che non sia un vocabolario che si ritrova nel mistero dell’incarnazione.
C’è un’altra cosa, un ultimo punto che mi preme: il suo rapporto con la povera gente. Mi sembra che nella sua persona, e anche nella casa in cui abitava – perché sono venuti in tanti a trovarlo, ma pochi ci hanno abitato – nella sua persona non era difficile trovare i tratti dei poveri. Il Fernet, che non era sulla sua scrivania, ma sul comò in camera sua, e alcuni aspetti tipici dei poveri: lo spreco, il disordine, che non voleva però dire che non trovasse le cose. Vi racconto di Vittoria, che veniva a fare le pulizie da noi: lui metteva tutti i suoi appunti in cartelline colorate di cartone, la Vittoria ebbe l’idea di dividergli tutte le cartelline per colore… lui veniva a casa dal seminario col motorino Gilera bianco. Sale le scale… vi lascio immaginare cosa abbiamo sentito! E poi, in due o tre occasioni, ha perso l’agenda, e allora tutta la casa si è messa a cercare l’agenda!
Sono aspetti questi che fanno rassomigliare don Alberto a uno dei nostri poveri: lo spreco, il disordine, la fragilità del suo sistema nervoso, l’irascibilità, la sua mancanza di forza fisica; noi che, non per spirito di servizio, cercavamo di arrivare sempre prima a fargli il caffè, era solo che se lo faceva lui era più il caffè che andava fuori dal filtro, che quello che rimaneva dentro, e diceva: “Eh, è la mia provenienza borghese!”.
Sono tutti aspetti importanti; tanto è vero che Corrado Gianotti diceva: “A lui si riesce sempre a rubare qualcosa”. Lui si alzava alle cinque, metteva la giacca sulla sponda della sedia, e Corrado, non si capisce come, gli faceva sempre fuori i soldi che aveva nel portafoglio. Di lui, quelli del villaggio Catellani dicevano: “Gli fregano tutto, ma non è mica stupido!”.
Allora questa sua condizione ha fatto sì che si è potuto dedicare con ogni mezzo, anzi, con l’unico mezzo che aveva a disposizione, visto che ha rinunciato alla cultura, si è potuto dedicare alla salvezza eterna delle persone con l’unico mezzo che aveva a disposizione, cioè la Grazia di Dio. Soprattutto quella dei Sacramenti. Vi tralascio gli episodi nei quali gli dicevano i cappellani dell’ospedale: “Ah, tu sei don Altana che butta dietro i Sacramenti”. Tanto è vero che la testimonianza di una persona ieri è stata proprio questa: “Mi colpì il suo modo di presiedere l’Eucaristia”. La Grazia dei Sacramenti.
Allora mi chiedo: l’organizzazione, la forza, i convegni, tutto bene, tutto organizzato, ma una Chiesa che può, può confidare unicamente, come faceva don Alberto, nella Grazia dei Sacramenti? A che punto è la nostra fede nella Grazia dei Sacramenti?
Don Giuseppe ha ricordato “il sacerdote come uomo spogliato come Gesù nel presepio, uomo mangiato come Gesù nell’Eucaristia, uomo crocifisso come Gesù sul calvario”, si può aggiungere: questa sua condizione lo ha fatto vivere di pura grazia. Una grazia che ha amministrato, che ha servito nella sua fede, nella sua fiducia nei Sacramenti.
Non aveva altro.
Mi chiedo: il servizio ai poveri, oggi, si identifica col fatto che nella vita delle nostre comunità si ritrovano i tratti dei poveri, oppure il servizio ai poveri si identifica con le strutture, con i mezzi, con le convenzioni? Per lui il servizio ai poveri si identificava con la Grazia dei Sacramenti, nella condivisione della Parola di Dio. Allora don Alberto ha consegnato la Parola ai poveri, perché si è consegnato a loro da povero.
Ho vissuto con lui 12 anni, ma non sono servito a molto, credo di essere stato la sua più grande delusione…
E allora riassumo e finisco il suo profilo spirituale con tre piccoli episodi che ho già detto, ma che volentieri comunico anche a voi.
Il primo è stato questo: a me non ha mai chiesto se volevo andare a letto, se ero stanco, mai. Aveva avuto da ridire anche sul fatto che io mi ero fermato qualche giorno in più dopo la morte di mio papà: “Sono stato male, dovevi tornare indietro subito dopo il funerale”.
Alla mia ordinazione, c’era la festa nazionale dell’Unità, a un certo punto mi sono trovato in duomo senza nessuno che mi desse un passaggio, allora mi hanno portato a dormire da mia madre e lui ci era rimasto male, del fatto cioè che non ero andato a dormire la prima notte del mio presbiterato a casa, ma semplicemente per un motivo logistico. Queste sono state le delusioni che si possono dire! Che gli ho dato e che continuo a dargli… ma non mi ha mai detto “Vai a letto che sei stanco”.
L’altra cosa, è che le vicende di via Adua a volte ci portavano anche a dei momenti in cui si arrivava a un grado di violenza notevole, però a volte si rendeva anche necessaria, e forse sarebbe stato bene anche farlo, mettere fuori le persone, perché non ne facevamo le spese io e don Alberto, le facevano gli altri poveri, quindi anche qui ci sarebbe da riflettere… Io mettevo fuori le persone. E dicevo: “Se lui torna dentro, vado via io”; lui usciva, prendeva a braccetto quelli che io avevo messo fuori, e li riportava a casa. Non ho mai capito perché non sono andato via!
E poi l’altro episodio è che quando a volte capitava di dover venire alle mani – e di questo un po’ mi vergogno – nel momento in cui sembrava che avvenisse la colluttazione, don Alberto si metteva sempre con la faccia davanti a me, coprendo i poveri: “Picchia me, picchia me!”. Erano tempi in cui si chiedeva la pietà ai poveri, in cui si chiedeva il permesso per dire Messa.
Allora vorrei concludere con quello che è stato detto all’inizio della Messa del suo funerale:
I poveri hanno detto di don Alberto “un uomo buono, che dava sempre il suo letto”. Iniziare il ricordo di don Alberto è iniziarlo così: sarà la testimonianza che di noi daranno i poveri quella che maggiormente resterà impressa nel cuore povero di Dio.
È proprio la povertà scelta di don Alberto quella che ci lascia in eredità. Una povertà che abbiamo spesso chiamato disordine o sciatteria, quando sapevamo benissimo che era frutto di immedesimazione coi poveri, e quindi fonte di grazia.
L’amore di don Alberto per i poveri, e particolarmente per i malati, è sempre coinciso col loro bene spirituale, proponendo i Sacramenti e mostrando in essi l’apice e il culmine della carità.
L’incontro con l’amore di Dio e la sua salvezza. È stato detto che don Alberto era instancabile. Non è del tutto vero: si stancava spesso, fino allo sfinimento e fino all’annientamento. In uno dei termini più cari a lui preso dal capitolo 2 della lettera ai Filippesi, dove il testo a un certo punto recita: “Annientò se stesso”. Uomo spogliato come Gesù nel presepio, uomo mangiato come Gesù nell’Eucaristia, uomo crocifisso come Gesù sul calvario.
Questo è sempre stato anche ciò che don Alberto ha voluto testimoniare per la Chiesa e nella Chiesa universale, soprattutto attraverso il diaconato e ha amato la Chiesa, perché non ne ha mai fatto un luogo di prestigio personale, ma ha vissuto e realizzato quella Chiesa dei poveri che il Concilio ha proposto e indicato come la Chiesa che deve stare di fronte al mondo.
I luoghi in cui ha vissuto ed abitato hanno testimoniato questo, luoghi dei quali è stato detto tanto senza averli conosciuti, e soprattutto senza averli vissuti fino in fondo, luoghi di Chiesa perché luoghi di poveri.
Incontrare don Alberto è incontrare i poveri. La sua preoccupazione per la povertà della sua, della nostra casa, nasceva dalla paura che i poveri, vedendola troppo bella, non la ritenessero la loro casa. Questo non è mai accaduto.
Ecco allora perché ha amato la Chiesa, perché ne ha sempre voluto e cercato la povertà, il suo è stato un amore sincero e di cui esserne certi, perché ha sempre voluto per lei la povertà più radicale, proprio come il Padre che ha voluto la povertà di suo Figlio sulla croce.
Ha realizzato questo nel suo essere Servo della Chiesa, in una comunione profonda con don Dino, pur nella diversità del vivere lo stesso carisma, segno della vitalità dello spirito. Per questo ogni occasione che, a livello ecclesiale, gli si presentava in modo continuo – come ad esempio il diaconato – o straordinario – come nel caso del sinodo diocesano – era per lui motivo per riproporre sempre con forza la necessità di una Chiesa più a immagine del Vangelo. E’ forse proprio per questo che il sinodo ha rappresentato a livello ecclesiale che solo marginalmente ha saputo cogliere la profezia di don Alberto.
C’è una cosa ancora di cui don Alberto andava fiero, e cioè di avere dato negli anni 50 e 60, quando era parroco al Tondo, la residenza ai Sinti – quelli che erroneamente chiamiamo zingari. Erano i tempi in cui l’amministrazione comunale era aperta a concedere la residenza a questo popolo e don Alberto, anche grazie alla sua formazione giuridica, era riuscito a ottenere questo anche una fattiva collaborazione del sindaco di allora.
In un tempo in cui si dicono e si lasciano dire cose di questo popolo radicate in ideologie, in cui nessuno vuole riconoscersi, è bene che, come scritto nelle Costituzioni dei Servi della Chiesa, la Chiesa stessa riconosca i Sinti come suoi figli, a noi è chiesto di sentire il popolo Sinto come il nostro popolo. Forse che l’amore di don Alberto per i popoli e per il popolo Sinto in ordine alla loro salvezza, ce lo fa amare di meno? Guai se considerassimo la grandezza di don Alberto dal fatto che ritenessimo straordinario che qualcuno ami il popolo Sinto fino a dare la sua vita. Don Alberto non ha mai cercato, anzi ha sempre rifuggito la stima che si mostrava di lui, inducendo piuttosto sempre alla conformazione a Cristo, servo e povero.
Mi ricordo una volta andammo a Lagrimona – sapete come faceva padre Natale: si chinava, baciava i piedi – e appena vide don Alberto: “Ecco il Santo!” e don Alberto, che non stava troppo bene, disse: “Dai, dai, lascia stare quelle balle lì!”.
Cosa chiede allora alla Chiesa e al suo Vescovo, alla famiglia dei Servi e delle Serve della Chiesa e al diaconato lo Spirito Santo che ha agito e trovato un terreno fertile nella vita e nel ministero di don Alberto? Innanzitutto chiede una scelta radicale di povertà, crescente, come diceva lui, per tutta la nostra Chiesa. Perché crescente è l’amore, amare la Chiesa, da chi la presiede fino a coloro che stanno in alto, cioè i poveri, secondo la gerarchia del Vangelo – come ci ricordava Mazzolari – è desiderare e volere per lei una povertà crescente, perché è povero, nato povero e morto povero, Colui che ha dato la vita per lei.
Non si può pensare di celebrare in modo ricco ciò che è stato pensato povero.
Custodiamo gelosamente la povertà della nostra Chiesa, poi lo Spirito Santo chiede alla nostra Chiesa, al suo Vescovo, ai Servi della Chiesa, al diaconato l’immedesimazione coi poveri, in un tempo in cui, appunto, facciamo dipendere il servizio e la carità dalle somme di cui disponiamo, da strutture sempre più ricche, sempre più costose, la vicenda di don Alberto ci invita a prendere in considerazione che i poveri non vanno collocati, perché non sono un caso da risolvere, né tanto meno utenti, ma i poveri sono convocati. Va esercitato nei loro confronti un discernimento da parte del Vescovo per i quali possono esercitare il loro ministero e va riconosciuto ad essi il dono dello Spirito per tutta la Chiesa che è il riflesso di quel dono che il Padre ha fatto a noi nella croce di suo Figlio. Lo Spirito tiene unita alla sua Chiesa il suo Vescovo, la famiglia dei Servi della Chiesa, il diaconato, la libertà del Vangelo.
Dovremmo avere maggiormente la parresia del Vangelo. E’ significativo che don Alberto non abbia mai voluto redigere un testamento spirituale, dicendoci sempre che alla sua morte ci sarebbe bastato il Vangelo e la Parola di Dio. Non ha frapposto nulla tra sé e il Vangelo, come tra sé e i poveri. Pur potendo disporre di una lucidissima intelligenza e di una vasta cultura ha sempre testimoniato di non sapere altro se non Gesù Cristo e questi crocifisso. Facendo incontrare l’uno il Vangelo e gli altri i poveri, in una comunione che lo ha portato al dono totale di sé, in un’Eucaristia che ora celebra in eterno.
Perché sei tu Padre che tutto sostieni con la tua Parola, ed è per questo che ti chiediamo per il dono dello Spirito, di essere resi conformi all’immagine del tuo Figlio che con te e lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli.
Amen.